4. Confronto settoriale & visione macroeconomica
🧭 4.1 L’importanza del confronto settoriale
Prima ancora di giudicare, serve mettere i numeri dell’impresa a confronto con quelli dei suoi pari:
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Dimensioni e settore: fatturato simile, Ateco congruente.
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Fonti affidabili—vedi paragrafi successivi.
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Confronto di margini, equilibrio patrimoniale, leva, redditività.
Solo così capiamo se un margine del 10% sia buono… o mediocre.
📊 4.2 Benchmark attendibili: dove andare
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Cerved – report settoriali con margini EBITDA medi intorno 15‑20% nei servizi (es. Cerved Media Corp: 19,3 %) it.wikipedia.org+1bancaditalia.it+1teleborsa.itdisclosure.spglobal.com+1storico-quotazioni.cerved.com+1gurufocus.com+1fitchratings.com+1
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Infocamere – dati PMI per margini, leva, PFN/EBITDA
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ISTAT – macro (PIL +0,6% nel 2025–2026; inflazione 1,6‑1,8%) it.wikipedia.org+11istat.it+11lastampa.it+11
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Banca d’Italia – tassi BCE stabili, rischio sistemico fitchratings.com+7bancaditalia.it+7bancaditalia.it+7
🔍 4.3 Esempi comparativi
4.3.1 Settore software (es. Engineering IT)
Fonti: Engineering S.p.A. con EBITDA margin 14–15% (2021–23) it.wikipedia.org+1it.wikipedia.org+1
∴ Se il tuo EBITDA margin è 12%, sei leggermente sotto, ma forse giustificato da investimenti non ricorrenti.
4.3.2 Servizi creditizi (Cerved)
EBITDA margin 19,3% (Q3-2021) bancaditalia.itgurufocus.com
∴ Un margine a 20% è eccellente, ma devi assicurarti che non dipenda solo da operazioni straordinarie.
🌍 4.4 Politica monetaria e condizioni macro
a) Tassi BCE & inflazione
Banca d’Italia prevede inflazione 1,5‑2% e crescita PIL +0,6‑0,8% corriere.it
👉 Tassi moderati → sostenibilità del debito più robusta.
b) Rischio paese & debito pubblico
Debito italiano ~135% PIL, pagamenti alti degli interessi it.wikipedia.org
Anche se marginalmente, può influire sui credit spreads.
🔄 4.5 Quando margini e leva non bastano
Immagina due aziende:
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A1: EBITDA margin 15%, PFN/EBITDA 3, ROI 10%
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A2: EBITDA margin 15%, PFN/EBITDA 5, ROI 8%
A1 è sana; A2 meno: ha gli stessi margini, ma rischio più elevato.
👉 Senza confronto, li avresti giudicati uguali. Col benchmark, capisci chi è più appetibile.
🎯 4.6 Rischio sistemico e scenari avversi
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Shock inflazione o stagnazione: con PIL +0,6% e inflazione stabile, tollerabile.
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Rallentamento estero o dazi: settore export-sensitive va monitorato.
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Tassi più alti: se – ad esempio – il debito ha rata variabile, DSCR e PFN/EBITDA cambiano.
✅ 4.7 Sintesi operativa
Obiettivo | Cosa fare |
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Benchmarks settoriali | Verifica con Cerved/Infocamere |
Macro & situazione Paese | Considera tassi, PIL, inflazione |
Sensibilità agli stress test | Simula impatto +1% tassi, -1% fatturato |
Decisione finale | Valuta equilibrio numerico + contesto |
🌟 Conclusione
“Confrontare un’impresa con i suoi pari è come suonare in una orchestra: ognuno dà il meglio solo se sappiamo chi suona il violino e chi fa il ritmo… altrimenti facciamo rumore!” 😉
🎓 Confronto, contesto e controllo: la triade che fa la differenza tra un sì e un no… in banca.
Confronto settoriale e macroeconomico: quali sono e dove trovare benchmark affidabili
Benchmark di settore: perché servono e dove trovarli
Confrontare i risultati di un’azienda con parametri di riferimento settoriali e macroeconomici è fondamentale per valutarne la performance in modo oggettivo. Un benchmark di settore rappresenta il valore medio o standard di un indicatore (ad esempio margine operativo, indebitamento, ROI, ecc.) per le imprese di uno specifico comparto. Misurare gli indicatori di bilancio di una società rispetto a questi parametri consente di capire se essa sta sovra-performando, allineandosi o restando indietro rispetto ai concorrentilexebusiness.itlexebusiness.it. Ad esempio, gli indici finanziari variano notevolmente da un settore all’altro a causa delle diverse dinamiche operative: un tasso di rotazione del magazzino che sarebbe eccellente nel settore metalmeccanico potrebbe risultare solo nella media nel settore alimentare, dove le scorte ruotano più velocementelexebusiness.it.
In sintesi, senza un metro di paragone settoriale, i numeri di bilancio di un’azienda restano “sospesi nel vuoto” e rischiano di essere interpretati in modo fuorviante.
Per individuare benchmark affidabili ci si può rivolgere a diverse fonti autorevoli. Ad esempio, la storica Area Studi Mediobanca pubblica ogni anno analisi sui bilanci di migliaia di società italiane, raggruppate per settore, fornendo medie e indicatori settoriali utili al confrontomediobanca.com. Altre fonti includono database finanziari specializzati (ad es. report di analisti, banche dati come Cerved o Bureau van Dijk), associazioni di categoria che diffondono studi di settore, nonché organi ufficiali.
In Italia, ISTAT e Banca d’Italia offrono statistiche macroeconomiche (crescita PIL, inflazione, tassi di interesse) che fungono da benchmark di contesto. Anche organizzazioni internazionali come OECD, Eurostat o le banche centrali (la BCE per l’Eurozona) pubblicano indicatori e previsioni utili a inquadrare la performance di un’impresa nel contesto economico generale. Insomma, i dati per un confronto rigoroso non mancano: vanno cercati presso fonti qualificate, aggiornate e – preferibilmente – indipendenti. Del resto, come dice l’adagio, “senza dati, sei solo un’altra persona con un’opinione”.
Confronto con aziende comparabili (dimensione e settore)
Un principio chiave del benchmarking è confrontare mele con mele: l’azienda in esame va paragonata a concorrenti omogenei per settore, struttura e dimensionelexebusiness.it. È infatti poco significativo confrontare, poniamo, una PMI manifatturiera locale con un colosso multinazionale: le differenze di scala, mercato e risorse falserebbero il giudizio. Per ottenere un raffronto significativo, occorre selezionare un paniere di peer comparabili, ossia imprese dello stesso ramo di attività e di taglia simile. Questo consente di isolare le variabili specifiche del settore e della dimensione d’impresa, evitando di attribuire meriti o colpe alla gestione quando invece sono dovuti al contesto. Come sottolineano gli esperti, una comparazione efficace richiede contesti omogenei; differenze marcate in termini di settore, dimensione o area geografica possono rendere difficile (se non fuorviante) il confronto direttolexebusiness.it. Inoltre, è bene considerare i dati su un orizzonte pluriennale: un singolo anno potrebbe essere anomalo, mentre le tendenze nel tempo rivelano la vera direzione (crescita, stabilità o declino) dell’azienda rispetto ai concorrenti.
Chi ci può fornire il nome delle aziende da mettere a confronto? Intervistando lo stesso imprenditore che dobbiamo analizzare. Lui sa chi sono i veri concorrenti!!!
Dove trovare i dati dei peer? Oltre alle fonti aggregate citate (studi di settore, database finanziari), spesso le aziende concorrenti essendo magari quotate in borsa pubblicano i propri bilanci e indicatori chiave. Analisti e investitori istituzionali usano metriche come multipli di mercato (P/E, EV/EBITDA) medi di settore reperibili su piattaforme finanziarie. Strumenti online come i data screener permettono di selezionare imprese comparabili e confrontarne gli indicatori in tempo reale. In mancanza di informazioni pubbliche dettagliate (ad esempio per aziende non quotate), ci si può affidare a studi di settore prodotti da centri studi bancari, società di consulenza o enti come Unioncamere che talvolta offrono benchmark medi per classi dimensionali di imprese. L’importante è assicurarsi che i parametri di confronto siano aggiornati e riferiti a campioni rappresentativi del settore di interesse, così da basare l’analisi su solide fondamenta empiriche.
Esempi pratici di confronto settoriale
Per rendere concreti questi concetti, consideriamo alcuni esempi di confronto tra un’azienda e i benchmark del proprio settore. Immaginiamo tre casi aziendali: uno di eccellenza, uno nella media e uno sotto la media rispetto ai rispettivi settori.
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Azienda “solida” (sopra il benchmark) – Settore automotive: La casa automobilistica di lusso Ferrari è un esempio lampante di performance ben superiori alla media del settore. Nel 2023 Ferrari ha registrato un margine operativo del 27%, trattenendo 27 centesimi di profitto per ogni euro di fatturato – un livello enorme che nessun altro costruttore automobilistico ha avvicinatoit.motor1.com. Basti pensare che la redditività operativa media delle case auto occidentali nello stesso anno era intorno all’8% (il margine complessivo del settore è passato dal 7,8% del 2022 all’8,4% nel 2023)it.motor1.com. Il benchmark settoriale dunque era circa un terzo di quello ottenuto dalla Ferrari. Questo gap positivo indica un’eccezionale vantaggio competitivo di Ferrari – frutto di prezzi elevati, brand esclusivo e gestione efficiente – che la posiziona ben al di sopra di una pur ottima competitor come Porsche (margine ~18%) e lontanissima dai produttori generalisti. Un’azienda così “fuori scala” ridefinisce gli standard: rappresenta il riferimento a cui tutti aspirano, il che giustifica l’appellativo di “macchina da soldi” spesso attribuito alla casa di Maranelloit.motor1.com.
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Azienda “nella media” (in linea col benchmark) – Settore automotive: Prendiamo ora un grande gruppo automobilistico generalista come Volkswagen Group. Considerando il 2023, Volkswagen (incluso il marchio Porsche nei suoi conti consolidati) ha riportato un margine operativo attorno al 7%, grosso modo in linea – anzi leggermente sotto – con la media del settore auto globaleit.motor1.com. In altri termini, per ogni euro di ricavi, trattiene circa 7 centesimi di profitto operativo, valore perfettamente in range con quello che ci si aspetta da un costruttore automobilistico di grandi dimensioni. Ciò suggerisce che Volkswagen, pur non brillando come Ferrari o Porsche, rientra nelle performance standard del suo comparto: né significativamente meglio né peggio della concorrenza diretta. Un investitore o analista, vedendo questi numeri, potrebbe definirla un’azienda “nella norma” del settore auto, evidenziando una gestione efficiente quel tanto che basta per allinearsi al benchmark ma senza particolari exploit. Questo tipo di confronto aiuta a tarare le aspettative: un margine del 7% può apparire basso in assoluto, ma diventa comprensibile – e accettabile – se sappiamo che è quello che mediamente fanno tutti in quel settore (dove pesano alti costi fissi, investimenti in ricerca, ciclicità delle vendite, ecc.). Morale: l’azienda è sul pezzo, ma ha margini di miglioramento se punta a distinguersi davvero.
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Azienda “sotto la media” (in difficoltà) – Settore bancario: Spostiamoci in un altro ambito per vedere un caso di forte sotto-performance. La banca italiana Monte dei Paschi di Siena (MPS) ha vissuto nell’ultimo decennio una situazione di crisi cronica rispetto ai parametri di settore. Mentre le principali banche italiane riuscivano, pur tra alti e bassi, a generare utili e a mantenere indicatori di solidità accettabili, MPS accumulava perdite colossali: oltre 23 miliardi di euro bruciati tra il 2011 e il 2020, con soli due esercizi chiusi in utile (2015 e 2018)soldiexpert.com. Anni disastrosi come il 2011 (-4,69 mld €) o il 2016-2017 (oltre -3 mld € ciascuno) l’hanno resa un fanalino di coda assoluto, costringendo all’intervento statale di salvataggio nel 2017 e ponendola ben al di fuori dai benchmark di un settore che, nello stesso periodo, vedeva altre banche mantenere ROE positivi e rafforzare i propri coefficienti patrimoniali. Confrontata con peer nazionali come Intesa Sanpaolo o UniCredit (che negli ultimi anni vantano ROE spesso tra il 10% e il 15%), MPS risultava per lungo tempo un’anomalia negativa – incapace di generare reddito e zavorrata da crediti deteriorati. Solo di recente, grazie a ricapitalizzazioni e alla risalita dei tassi, Monte Paschi ha mostrato segni di ripresa, tornando a un utile nel 2023. Ma la sua storia di perdite protratte resta un monito: quando un’azienda viaggia stabilmente sotto i benchmark settoriali, la conseguenza è un deterioramento della fiducia di mercato e, nei casi estremi, la necessità di interventi straordinari (fusioni, ristrutturazioni o aiuti pubblici) per assicurarne la sopravvivenzasoldiexpert.comsoldiexpert.com. In altre parole, un campanello d’allarme continuo su quanto sia importante monitorare gli scostamenti dai valori di settore – perché se l’azienda fa molto peggio dei suoi pari, qualcosa di strutturale non funziona.
In sintesi e in tono semi-serio:
Immaginiamo queste tre aziende – la “top performer”, la “medio ordinaria” e la “pecora nera” – presentarsi a una gara di atletica economico-finanziaria. La Ferrari corre i 100 metri piani e taglia il traguardo quando gli altri devono ancora percorrere un terzo della pista, salutando il pubblico con il sorriso di chi è abituato a vincere. Volkswagen arriva al traguardo con un dignitoso tempo nella media, ansimando ma soddisfatta: “Hey, ho fatto ciò che fanno tutti, giusto?”. Poco dopo, si sente un tonfo: è MPS che, ahimè, inciampa sui lacci delle proprie scarpe (i non-performing loans!) e cade rovinosamente a metà corsa. Il giudice di gara scuote la testa sconsolato: “Se avessi guardato i tempi medi del settore, avresti saputo che così non si corre!”.
Morale: in questa metaforica corsa, ogni impresa dovrebbe conoscere il tempo medio della propria pista e allenarsi per restare quantomeno nel gruppo, se non in testa.
Rischio sistemico e indicatori macroeconomici
Oltre al confronto settoriale, un’analisi completa considera il contesto macroeconomico in cui l’azienda opera, valutando i rischi sistemici. Per rischio sistemico in senso lato intendiamo quei fattori che possono impattare simultaneamente tutte (o la maggior parte) delle aziende e dei mercati, derivanti dall’andamento generale dell’economia e del sistema finanziario. Esempi tipici sono i tassi di interesse fissati dalle banche centrali, il tasso di crescita del PIL e il livello di inflazione. Questi indicatori fungono da segnali di allarme o vento in poppa per le imprese: il loro movimento può migliorare o peggiorare improvvisamente le condizioni di contorno in cui le aziende si trovano ad operare.
Vediamo come leggere alcuni di questi parametri chiave:
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Tassi di interesse (politica monetaria) – I tassi stabiliti dalla Banca Centrale Europea (BCE) influenzano direttamente il costo del denaro. Un aumento dei tassi rende più oneroso per le imprese finanziarsi (prestiti bancari, obbligazioni) e quindi tende a ridurre investimenti e margini netti, soprattutto per le aziende indebitate. Viceversa, tassi più bassi alleggeriscono gli oneri finanziari e stimolano investimenti a debito. Negli ultimi anni abbiamo visto esempi concreti: i rialzi decisi dalla BCE per contrastare l’inflazione hanno comportato un aggravio degli interessi passivi per le imprese, erodendo i profitti e rendendo più complesso rimborsare i prestitiagicap.com. Come nota un’analisi finanziaria, le oscillazioni dei tassi si riflettono inevitabilmente sui flussi di cassa aziendali, indipendentemente dal settore o dalla dimensione dell’impresaagicap.com. Questo significa che tutte le aziende sono esposte al rischio di tasso: quando il costo del denaro sale, chi ha debiti vede peggiorare i propri conti (oneri finanziari che “mangiano” utili), quando scende può tirare un sospiro di sollievo. È dunque essenziale monitorare le mosse delle banche centrali. Un principio di macroeconomia insegna infatti che un aumento dei tassi d’interesse frena la crescita della domanda e dell’economia e, se portato all’estremo, può aumentare la disoccupazioneeconomiapertutti.bancaditalia.it. D’altro canto, tassi troppo bassi per troppo tempo possono creare bolle finanziarie o eccessi di indebitamento: ecco perché l’impresa accorta deve guardare con un occhio al proprio bilancio e con l’altro alle conferenze stampa della BCE.
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Crescita del PIL – Il Prodotto Interno Lordo misura la ricchezza prodotta da un Paese (o area) ed è un termometro della salute economica generale. Un PIL in robusta crescita segnala un’economia in espansione, consumi vivaci, maggiore domanda per beni e servizi: per molte aziende questo si traduce in opportunità di fatturato in aumento. Al contrario, un PIL stagnante o in recessione indica contrazione della domanda aggregata, tagli alla spesa, clima di incertezza – uno scenario in cui anche un’impresa efficiente può vedere calare vendite e utili semplicemente perché il mercato si restringe. Interpretare il PIL significa dunque capire se l’azienda sta crescendo per meriti propri o se è “portata dalla corrente” di un’economia favorevole (e viceversa in fase negativa). In concreto, se un’azienda registra +5% di vendite in un anno ma il PIL del paese cresce del +6%, la sua performance relativa è sotto tono, perché non ha sfruttato appieno la crescita del mercato. Viceversa, vedere un +2% di fatturato in un paese in recessione è indice di forza, dato che la torta complessiva si stava riducendo. I benchmark macroeconomici come il PIL servono proprio a contestualizzare i risultati aziendali: nessuna impresa è un’isola, e il vento dell’economia soffia per tutti. Chiara è l’implicazione in termini di rischio sistemico: se le prospettive PIL peggiorano (previsioni di recessione), aumenta il rischio di minori ricavi e maggiori difficoltà un po’ per tutte le imprese – un rischio diffuso che non dipende da errori aziendali ma dal ciclo economico generale. Le aziende più prudenti preparano piani di scenario per queste evenienze, ad esempio accumulando riserve nei periodi di boom per coprire eventuali cali nei periodi di magra.
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Inflazione – L’inflazione (l’aumento generalizzato dei prezzi) è un’altra variabile macro di forte impatto sul business. Un’inflazione moderata e stabile spesso coincide con fasi di crescita economica sana, mentre un’inflazione elevata e volatile crea incertezza e può erodere redditività. Per un’azienda, vedere i prezzi delle materie prime e dell’energia salire rapidamente significa costi maggiori da sostenere; se non riesce a trasferirli a valle aumentando i propri prezzi, i margini si comprimono. Inoltre, l’inflazione riduce il potere d’acquisto dei consumatori: con prezzi in aumento, le famiglie comprano meno beni discrezionali, impattando i ricavi delle imprese (specie in settori come retail, beni di consumo, ecc.). In periodi di inflazione alta, le banche centrali intervengono alzando i tassi (come detto sopra), il che raffredda l’economia ma aumenta anche i costi finanziari. Dunque l’inflazione porta con sé un duplice rischio sistemico: operativo (costi e prezzi) e finanziario (tassi più alti). Non sorprende che un’inflazione elevata e fuori controllo sia associata, nel lungo periodo, a minore crescita economica e maggior instabilitàeconomiapertutti.bancaditalia.it. Ad esempio, l’economia italiana negli anni ‘70-’80 sperimentò inflazione a due cifre che creò forte incertezza, colpi di coda nei tassi d’interesse e continue rincorse salari-prezzi (la famosa spirale). Oggi siamo lontani da quei livelli, ma il 2022-2023 ha visto un ritorno dell’inflazione (spinta dai prezzi energetici e colli di bottiglia post-pandemia) che ha obbligato la BCE a stringere la cinghia monetaria. Per l’impresa, interpretare il dato inflazionistico significa quindi attrezzarsi: indicizzare listini, efficientare i consumi energetici, rinegoziare contratti di fornitura e, in generale, prevedere come l’erosione del potere d’acquisto influenzerà la domanda dei propri prodotti. Un pizzico d’inflazione può far bene (favorisce chi è indebitato a tasso fisso, perché “alleggerisce” il peso reale del debito, e segnala vivacità dell’economia); troppa è come il sale in una zuppa: può rovinare la pietanza economica per tutti i commensali.
Spieghiamoci meglio: Per visualizzare il concetto di rischio sistemico, pensiamo al macroambiente come a una grande giostra su cui sono sedute tutte le aziende. In cima c’è nonno BCE che gira la manovella dei tassi: quando vede che la giostra va troppo veloce (inflazione alta) la frena improvvisamente, causando qualche giramento di testa ai passeggeri; quando invece la vede quasi ferma (economia in stallo) dà una vigorosa spinta per accelerarla. Su ogni cavallino della giostra c’è un imprenditore: il Sig. Rossi tiene d’occhio il cartello “PIL” appeso al centro – se indica crescita, sorride e sprona il cavallo, se segna recessione si regge forte alla sella preparandosi ai sobbalzi. La Sig.ra Bianchi, due posti più in là, litiga col draghetto Inflazione che sputa fuoco: ad ogni fiammata i costi per la sua azienda salgono, così prova a spegnere l’incendio con un estintore di aumenti di prezzi, sperando che i clienti non scappino. Tutti sono sulla stessa giostra e non possono scendere: quando la corsa diventa turbolenta per colpa di fattori esterni, le aziende possono solo aggrapparsi bene e adattarsi al movimento.
“Ricordatevi, signori, che questa giostra deve restare in equilibrio… altrimenti saranno guai per tutti!”. Ecco servito il rischio sistemico in forma di carosello: se il manovratore sbaglia velocità o se un drago sputa troppi fuochi, nessuno dei passeggeri ne è immune.
Rischio economico e rischio Paese
Nel valutare la solidità di un’azienda, soprattutto se opera su mercati internazionali, occorre considerare anche i concetti di rischio economico e rischio Paese. Queste dimensioni ampliano lo sguardo dall’andamento generale macro (visto sopra) ad aspetti più specifici del contesto in cui l’impresa è inserita. In particolare, il rischio economico attiene alle condizioni strutturali dell’economia in cui l’azienda opera, mentre il rischio Paese (o country risk) riguarda i potenziali pericoli derivanti dal fatto di investire o fare business in un determinato Paese, soprattutto estero.
Rischio economico. Possiamo definire il rischio economico come il rischio che deriva dai fondamentali dell’economia di riferimento: comprende fattori quali la crescita o decrescita del PIL, l’andamento delle esportazioni e della bilancia commerciale, il livello di indebitamento pubblico e privato, la capacità di accesso al credito residua, la solidità del sistema bancario e – di nuovo – il tasso d’inflazione locale dogma.it. In sostanza, è la probabilità che cambiamenti avversi in questi indicatori macro possano tradursi in difficoltà per le imprese. Ad esempio, un’economia che entra in recessione (PIL in calo) presenta un rischio economico elevato per le aziende lì operative: calano i consumi, aumentano i fallimenti, si restringe il credito. Oppure, un’esplosione dell’inflazione in un dato paese alza il rischio economico perché erode potere d’acquisto e margini, come già discusso. Questo concetto è strettamente legato al rischio sistemico/macroeconomico, ma può riferirsi anche a settori specifici: ad esempio, se il settore immobiliare di un Paese accumula una bolla e poi scoppia, si materializza un rischio economico settoriale con ripercussioni a catena (si pensi alla crisi dei subprime negli USA). Quando valutiamo un’azienda, specie per investimenti o partnership, dovremmo chiederci: qual è lo stato di salute generale dell’economia in cui opera? Ci sono squilibri (debito alle stelle, deficit cronico, inflazione fuori controllo) che potrebbero minarne le prospettive? L’esperienza insegna che spesso non basta una gestione aziendale eccellente se l’ambiente economico circostante crolla: quando la marea si ritira, anche le barche migliori rischiano di arenarsi.
Rischio Paese. Si tratta di un concetto ampio e multidimensionale, che abbraccia tutti i rischi aggiuntivi che un investitore o un’azienda affrontano quando operano al di fuori del proprio mercato domestico. Una definizione classica di Country Risk è “l’insieme dei rischi che non si pongono operando nel mercato domestico, ma che emergono quando si effettua un investimento in un Paese estero, dovuti alle differenze politiche, economiche e sociali tra il Paese dell’investitore e il Paese target” dogma.it. In pratica, investire (o esportare, o aprire una filiale) in un altro Paese espone l’azienda a una serie di possibili problemi: instabilità politica, normative sfavorevoli o incoerenti, rischio di conflitti o disordini sociali, potenziali espropri o nazionalizzazioni, barriere valutarie (controlli sui capitali, rischio di conversione della valuta), oltre naturalmente ai rischi economici intrinseci di quell’economia. Il rischio Paese è dunque un ombrello che copre varie categorie di rischio: in letteratura ne vengono identificate almeno sei (sovrano, economico, politico, di trasferimento valutario, di cambio, di posizione geografica)dogma.it. Ad esempio, il rischio sovrano riguarda la possibilità che uno Stato estero non ripaghi i propri debiti o garantisca le obbligazioni (pensiamo al default argentino o al rischio di ridenominazione del debito in caso di uscita dall’euro); il rischio politico attiene a eventi come colpi di Stato, rivoluzioni, guerre, oppure a mutamenti legislativi improvvisi che possano penalizzare le imprese straniere. C’è poi il rischio di cambio, cruciale se si hanno flussi in valute diverse: forti oscillazioni del tasso di cambio possono erodere utili o rendere non competitivi i prodotti (si pensi a un euro molto forte che penalizza l’export italiano, o viceversa a valute emergenti che si svalutano improvvisamente aumentando i costi delle importazioni per quelle economie). Tutte queste sfaccettature confluiscono nel rischio Paese.
Va evidenziato che nessun Paese è a rischio zero. Anche le nazioni economicamente avanzate e politicamente stabili presentano possibili criticità: dagli Stati Uniti all’Europa, eventi straordinari come attacchi terroristici, crisi finanziarie globali o shock esterni (pandemie, guerre commerciali) possono temporaneamente paralizzare i sistemi economici dogma.it. Ad esempio, l’11 settembre 2001 negli USA, pur essendo un paese solidissimo, causò uno shock tale da bloccare mercati e attività per giorni. Per un’azienda che opera su scala globale, dunque, il rischio Paese va sempre ponderato e monitorato costantemente dogma.it. Strumenti per farlo includono i rating assegnati dalle agenzie (Moody’s, S&P, Fitch) ai debiti sovrani, gli score di rischio Paese elaborati da organizzazioni come OECD o SACE (in Italia SACE fornisce valutazioni sul rischio Paese utili per chi esporta o investe all’estero), nonché gli indicatori di governance e stabilità politica della Banca Mondiale. Un incremento del rischio Paese spesso si riflette immediatamente sul costo del capitale per le imprese di quel Paese: ad esempio, un downgrade del rating sovrano tende a far salire lo spread sui titoli di Stato e quindi i tassi sui prestiti bancari interni, penalizzando anche le imprese domestiche nei finanziamenti.
In concreto, come interpreta un’azienda (o un analista) il rischio Paese? Facciamo un esempio: un produttore italiano vuole aprire uno stabilimento in un paese straniero emergente. Dovrà valutare non solo i costi e benefici industriali, ma anche scenari come: “E se quel governo cade e ne arriva uno ostile agli investitori esteri?”, oppure “E se fra due anni introducono controlli valutari che mi impediscono di rimpatriare i profitti?”. Sono domande non peregrine: basti pensare a vicende come quella di Telecom Italia in America Latina, o di banche europee nei paesi dell’Est, dove decisioni politiche o crisi locali hanno inciso pesantemente sui risultati. Conoscere il rischio Paese significa essere preparati al peggio pur sperando nel meglio: stipulare assicurazioni sul rischio politico (esistono polizze ad hoc), diversificare geograficamente investimenti e fornitori, prevedere clausole contrattuali che tutelino in caso di eventi avversi. In sintesi, mentre il rischio economico è un po’ il meteo di fondo (sole/pioggia macroeconomica), il rischio Paese è la mappa geografica: in certi territori ci sono mine nascoste cui prestare attenzione.
Per capire meglio: Immaginiamo un’azienda, la GloboCorp, come una coraggiosa esploratrice che decide di attraversare vari Paesi con il suo carico di prodotti. Parte dall’Italia con il suo zainetto pieno di know-how, e man mano che varca i confini aggiunge strumenti al kit: una bussola anti-burocrazia per orientarsi nei labirinti normativi esteri, un ombrello anti-sommossa per ripararsi dai possibili temporali politici, e un dizionario valutario magico per tradurre i prezzi in ogni moneta. Nel suo cammino, GloboCorp incontra personaggi bizzarri: il Folletto Fisco che in alcuni Paesi è amichevole e in altri dispettoso (aliquote che vanno su e giù come altalene), il Drago Cambio che talvolta dorme placido e talvolta si agita sputando fuoco e svalutando monete, e persino il Gigante Sovrano che in terre lontane potrebbe decidere, dall’oggi al domani, di appropriarsi del tesoro (le attività) della nostra esploratrice. Ogni volta che supera indenne un Paese, GloboCorp timbra il passaporto con sollievo, ma sa che nel prossimo viaggio dovrà studiare ancora meglio il percorso: “Qui serve una mappa aggiornata dei rischi, altrimenti finisco nelle sabbie mobili!”.
In fondo, fare impresa a livello internazionale è un po’ così: un mix di Indiana Jones e Marco Polo, dove al posto delle trappole antiche ci sono i rischi paese moderni. E se qualche volta GloboCorp torna a casa ammaccata, avrà almeno una storia avvincente da raccontare al consiglio di amministrazione!
Conclusione
Siamo partiti dai numeri di bilancio e siamo arrivati a Indiana Jones: questo viaggio nel mondo del confronto settoriale e macroeconomico ci insegna che valutare un’azienda è un esercizio a 360 gradi. Bisogna tenere insieme micro e macro, guardare allo specchio (i competitor) e alla finestra (lo scenario esterno), con il rigore di un analista e magari – perché no – con un pizzico di ironia.
Un bravo analista deve essere un po’ economista, un po’ detective e un po’ equilibrista: districarsi tra dati di settore, curve del PIL, tassi che saltano su e giù e fattori geopolitici imprevedibili. È un’arte seria, ma guai a prendersi troppo sul serio: come diceva Roberto Benigni, “ridere è il linguaggio dell’anima”.
E allora concludiamo con un sorriso: l’economia è bella (quando ci capisci qualcosa)! Dopo aver messo a confronto bilanci, rischi e benchmark, la lezione finale potrebbe essere che, qualunque tempesta ci sia fuori, l’importante è avere sempre un ombrello di riserva… e magari un amico banchiere che ci presti l’ombrello quando splende il sole e ce lo chieda indietro quando piove (eh già, le banche fanno così). Scherzi a parte, con solide basi di confronto e un occhio attento ai segnali macro, anche un temporale finanziario può essere affrontato senza farsi travolgere. E se proprio il cielo cade sulla testa, ricordiamoci che la vita è più della somma dei nostri KPI: dopotutto, “domani è un altro PIL!”.
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